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Dopo di noi

  • Anna Cecilia Poletti
  • 2 ago 2015
  • Tempo di lettura: 4 min

La disabilità non è qualcosa di “altro” da noi: siamo già tutti disabili in qualcosa e, in potenza, siamo tutti dei disabili non autossuficienti. Quindi il “dopo di noi” è valido non solo per quei genitori che vivono la preoccupazione per il futuro dei loro figli disabili, fatta di frustrazione e dolore, ma è un discorso altrettanto possibile, nel tipo di cultura a cui apparteniamo, per chiunque sia solo, senza figli o che resti comunque in una situazione di solitudine.

Martedì 28 luglio sono intervenuta in qualità di insegnante specializzata nel sostegno all’incontro-dibattito “Dopo di noi- professioni sanitarie” organizzato dal circolo nord del PD di San Benedetto del Tronto. Alla presenza del sindaco Gaspari e dell’assessore Sorge, del consigliere regionale neo eletto Urbinati, dei referenti locali per la disabilità, dei rappresentanti dei servizi sociali e della ASL, delle associazioni che rappresentano le varie tipologie di disabilità, di alcuni rappresentanti sindacali, si è fatto il punto della situazione sulle problematiche relative all’handicap e si sono espresse le necessità più urgenti e le possibilità di soluzione. Riporto di seguito una sintesi del mio intervento perché penso possa essere utile come riflessione anche al di fuori dei confini di San Benedetto.

«La disabilità non è qualcosa di “altro” da noi: siamo già tutti disabili in qualcosa e, in potenza, siamo tutti dei disabili non autossuficienti. Quindi il “dopo di noi” è valido non solo per quei genitori che vivono la preoccupazione per il futuro dei loro figli disabili, fatta di frustrazione e dolore, ma è un discorso altrettanto possibile, nel tipo di cultura a cui apparteniamo, per chiunque sia solo, senza figli o che resti comunque in una situazione di solitudine. Dunque il problema riguarda tutti così come tutti sono chiamati a essere la soluzione.

Paradossalmente culture che non hanno a disposizione i nostri mezzi e che possiamo definire, rispetto a noi, arretrate in molte cose, non vivono la preoccupazione di chi si occuperà di anziani e disabili poiché il senso della famiglia è molto radicato, come anche l’accettazione dell’impegno nei confronti delle esigenze dei membri della famiglia non viene vissuto in maniera traumatica.

Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che la situazione della disabilità in un futuro più o meno remoto sia quella che fotografiamo ora. Dobbiamo realisticamente considerare che l’aspettativa di vita si è allungata per tutti e malattie come l’Alzheimer, il Parkinson, le demenze e le varie patologie invalidanti, sono diventate delle emergenze che si sommano ai casi di disabilità già esistenti. È diversa l’origine ma il risultato è la stessa situazione di non autosufficienza dei disabili più gravi. Bisogna perciò considerare seriamente come vorremmo che fosse per noi stessi il futuro da disabili.

Avere chi si occupa del nostro fisico (di curarlo, pulirlo, nutrirlo) è il minimo sindacale. Parlando con le famiglie dei ragazzi che nel corso degli anni ho seguito e seguo a scuola, l’ansia prevalente è quella di non sapere chi vorrà loro bene. Chi darà loro affetto? Li aspetta un futuro in mezzo a persone che stanno con loro solo per lavoro o avranno la possibilità di avere una rete di relazioni tutta loro? Magari se non una famiglia, almeno degli amici. L’aspetto a cui nessuno vorrebbe rinunciare è proprio quello relazionale, affettivo, presupposto del benessere di ogni persona.

Uno spunto utile per quello che può riguardare il futuro dei soggetti con handicap può venire da quanto si sta attivando per i malati di Alzheimer e simili. Non mi riferisco solo alle strutture residenziali o ai progetti che si svolgono nei diurni ma a tutto il programma di informazione e formazione e supporto che si compie sulle famiglie, sui cosiddetti care giver. Lo scopo è quello di far mantenere all’ammalato un contesto il più possibile familiare, ricorrendo al ricovero in struttura nei casi più disperati e al centro diurno come luogo di socializzazione e attività riabilitative.

I disabili a mio avviso dovrebbero poter compiere un percorso simile. Mantenere il più possibile un contesto familiare, con il supporto delle istituzioni preposte. Da un lato c’è bisogno perciò di una formazione sui familiari (e di un supporto psicologico di ascolto) e perché no, gli amici, che vorranno prendersi cura del disabile; dall’altro bisogna creare un contesto in cui stabilire delle relazioni per il disabile sia possibile.

Il tempo in cui si formano le relazioni è l’età scolare (anche perché il futuro si prepara nel presente) e la scuola è il luogo prediletto per processi di integrazione e inclusione: la microsocietà che allarga la famiglia e fa da palestra per la società reale. Può agire tanto sulla formazione che sull’informazione e anche sull’educazione. Perché inclusione è anche e soprattutto educazione. Ad esempio, senza essere edulcorati, inclusione non è solo somma di soggetti ma anche sottrazione di aspettative, è soprattutto educazione a gestire la frustrazione. La scuola fa molto e ha fatto molto per l’inclusione: se la società oggi è un po’ più attenta e accogliente nei confronti dei disabili, lo si deve alla scuola, nonostante si faccia di tutto per metterla in ridicolo.

Interventi concreti che possono arrivare dalle istituzioni sono:

a) il supporto alle scuole per una formazione continua di docenti e operatori sulle tematiche dell’inclusione; che fine ha fatto l’albo di docenti specializzati sull’autismo che veniva citato nella prima stesura della riforma?

b) riempire i vuoti normativi e risolvere le contraddizioni che tuttora sussistono e di cui i sindacati non hanno facilitato la soluzione (come ad esempio il problema di chi deve accompagnare un bambino non autosufficiente al bagno; il problema delle utilizzazioni nelle scuole medie ed elementari per garantire una continuità educativa);

c) organizzare stage orientativi e tirocini (come previsto dalla riforma) anche per disabili gravi in collaborazione con cooperative sociali, associazioni e centri diurni;

d) facilitare l’inclusione incentivando le associazioni che prevedano attività di inclusione, soprattutto se legate alla scuola;

e) promuovere una cultura dell’accoglienza, soprattutto a livello familiare. La beneficenza, le adozioni a distanza, il volontariato retribuito e part-time ci hanno fatto perdere il senso dell’impegno civile costante. Bisogna rimuovere lo stallo: a questo punto forse, se la società fosse un po’ più aperta all’accoglienza delle famiglie atipiche, allargate, non “naturali”, non è detto che proprio da queste non potrebbe provenire un spirito nuovo di accoglienza».

 
 
 

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