Impressioni di un agosto infernale (e di un cappotto sulle spalle).
- Stefano Leopardi
- 11 ago 2015
- Tempo di lettura: 5 min
"Ci siamo. Dopo tanto attendere finalmente ci siamo. È giunto! Immancabile e puntale come la morte e le tasse. Il tanto temuto e paventato: «rito della vestizione». Mi accingo come un eroico samurai ad indossare nuovamente i roventi abiti di scena, alcuni di questi, pantaloni, calze, scarpe invernali, camicia a maniche lunghe, sciarpa, cappellaccio a cilindro (di un materiale ignoto anche ai tecnici del RIS che incide la mia fronte come una rozza corona di spine) sono già più o meno tutti attaccati al mio corpo da circa un’ora; ma lui lo sento da lontano che mi chiama...."
Il reverendo Robert Walker , di Sir Henry Raeburn, ritrae un reverendo realmente esistito, appassionato di pattinaggio; attraverso la prova di abilità del saltare con i pattini tre cappelli, era diventato membro dell’ esclusivo e antichissimo club di pattinaggio di Edimburgo. Per Monna Lisa &co è stato interpretato da Paolo Fratoni (a Roccafluvione e Ascoli) e da Stefano Leopardi a Grottammare.

Stefano Leopardi, autore anche di parte dei testi dello spettacolo, ne ha fatto un personaggio esilarante, protagonista di una performance particolarmente allusiva e comica. Presentiamo oggi le impressioni del reverendo Robert Walker attraverso le parole dell’irriverente Stefano Leopardi. (n.d.r.)

Ci siamo. Dopo tanto attendere finalmente ci siamo. È giunto! Immancabile e puntale come la morte e le tasse. Il tanto temuto e paventato: «rito della vestizione» (parte seconda).
Mi accingo come un eroico samurai ad indossare nuovamente i roventi abiti di scena, alcuni di questi, pantaloni, calze, scarpe invernali, camicia a maniche lunghe, sciarpa, cappellaccio a cilindro (di un materiale ignoto anche ai tecnici del RIS che incide la mia fronte come una rozza corona di spine) sono già più o meno tutti attaccati al mio corpo da circa un’ora; ma lui lo sento da lontano che mi chiama, avverto la sua presenza,come se qualcosa o qualcuno mi scrutasse nell’ombra della navata blandendomi con una voce roca e suadente (“dai prendimi, indossami, lo so che ti piace”)… “il Cappottone di lana con cinquanta sfumature di nero” che tiene caldo in pieno inverno e ti fa assaporare un pizzico di inferno d’estate; datemi una vergine di ferro con cui fare a cambio e vedrete il mio volto costellato di gioia celeste.
Così intabarrato mi dirigo verso l’uscita per raggiungere dopo una laica via crucis la postazione che mi compete. Vedo dei volti che palesano solidarietà per la mia persona, io, un novello Cristo in attesa di giungere al Golgota, e come se non bastasse ad un certo punto noto una figura che si stacca dalla folla e mi si avvicina con un panno per asciugarmi il volto grondante di sudore, cos’è?! Spera forse che l’effige del mio viso le rimanga impressa come sacra sindone?, al che le dico: «poi passa che te lo autografo pure; so che su eBay questi articoli vanno decisamente forte».
Mancano solo pochi passi all’arrivo ma nella mia mente iniziano ad affastellarsi strane immagini: rematori di antiche galee costretti con la frusta a far girare i remi più rapidamente per consentire al capitano di fare sci nautico; Cersei che percorre il cammino della vergogna come nell’ultima puntata del trono di spade (almeno lì lei era nuda); ed ancora corvi, sciacalli e cadaveri decomposti nel deserto.
Ma ecco che finalmente arrivo alla mia cornice, ripeto come un mantra la frase cult di Vincent Cassel nel film L’Odio, fin qui tutto bene, fin qui tutto bene, fin qui tutto bene.
L’estetista mi passa accanto e dandomi una botta di cipria (visto che quasi tutto il trucco era rimasto impresso sul panno, tra l’altro già messo all’asta) mi chiede:«hai bisogno di qualcosa?», (cavolo non posso farmi vedere da una gentile donzella così bisognoso di cure) mi tiro su impettito e le declamo: «no grazie gentilissima soccorritrice, sto benissimo, ora la mia vita ha finalmente un senso, sono in pace con me stesso e con il mondo che mi circonda (“cazzo dici, dacci un taglio così capisce che stai vaneggiando e chiama direttamente l’ambulanza, chiedile qualcosa”… … … “non il suo numero di telefono idiota, qualcos’altro”) se aveste la cortesia comunque di farmi avere dell’acqua vi sarei in eterno grato»; e lei «vuoi anche dello zucchero?» (“ma allora ci sta a prova’”), «no grazie poi non saprei come spiegarlo alla mia ragazza».
Guardo l’ora dal mio cellulare, ahhh ancora le nove!; con i due neuroni attivi rimasti faccio due conti, quattro ore di sofferenza (“tre idiota”…”no quattro”… “tre”… “quattro”…) …allora!!… la fate finita che già fa caldo!..; uno di voi due è palesemente inutile posso benissimo andare avanti con l’altro, fate testa o croce e decidete chi deve spegnersi (…vi prego, o dei di tutte le religioni passate, presenti e future, fate in modo che si spenga quello più idiota,…bmabnonbqguestquolll’algtro, … grazie, o dei).
Mi appresto a trasformarmi in quadro vivente (vivente in questa bolgia infernale è una parola grossa): un piede a terra, l’altro appoggiato su di un banchetto, una mano al petto l’altra lungo la coscia, busto sporto in avanti, espressione vagamente scema, sguardo dritto davanti a me.
Gli spettatori arrivano in corteo ad intervalli irregolari (quattro, due, venti persone), non vedo i loro volti ma da quel che dicono mi faccio un’idea di come appaio ai loro occhi “oh poverino, Gino guarda questo come sta conciato…”, “ma come fa a rimanere fermo, con il cappotto, con questo caldo”, “aaah bello! nun te vojo esse’ manco camicia”, “mamma vieni qua! Guarda questo! Che bravo ma come fa!”, “ohhh! Uguale spiccicato!”.
Le dieci e dieci! Ora manca un’ora e cinquanta (“no due ore e trentotto” e a te chi cazzo ti ha riattaccato! Spegniti!). Il caldo comincia ad essere insopportabile, i muscoli si irrigidiscono, e quegli stronzi che mandano le musiche hanno saltato lo stacchetto per la pausa, ma porc… ma ditelo che ci volete “annucca’”. Nel frattempo il corteo dei visitatori si fa più pressante, arrivano gruppi più cospicui, i loro commenti sono grossomodo gli stessi, una donna, credo anche con le lacrime agli occhi esclama: «Oh poverino, chissà quanto soffre, che avrà fatto di male, scommetto che si è scopato la donna dell’organizzatore, io non resisto a vederlo così, mo vado là e lo ammazzo con le mie mani»; «Cazzo! E mo dove scappo!».
Le undici e venti; dai che ci siamo!è quasi fatta; la ragazza con l’ombrellino è distrutta; io sono a pezzi; le tre età dell’uomo sono diventate una soltanto, tre vecchi incartapecoriti; dalla postazione della primavera arrivano lamenti come se qualcuna stesse davvero avendo le doglie. Vedo tutto l’ambiente circostante come se fossi sotto effetto lisergico, odo voci provenire da ogni direzione, canti di pellerossa per rituali di purificazione. E poi finalmente le grida degli altri figuranti che come una pasqua di salvezza esclamano: «finito! Potete lasciare le postazioni! Finito! Andiamo tutti in piazza!». Oh grazie! Altri cinque minute ed avrei ritrovato la fede come San Paolo sulla via di Damasco.
Ci ritroviamo infine tutti in piazza, decisamente stanchi, ma splendenti come una strada di stelle che irradia di raggi cosmici il buio della notte.

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